Uomini e no
di
Piero Pompili
Vernissage sabato 18 Gennaio 2025, ore 17:00
ingresso libero
la mostra prosegue fino al 22 febbraio
per info e prenotazioni
www.biancocontemporaneo.it
Chi è la “Figlia di Iorio” di Piero Pompili
Si chiama Gabriella. È una donna transessuale nata in Australia da emigrati italiani, nel 1970. Durante l’adolescenza inizia a percepire un disaccordo tra il corpo e la sua identità femminile. Inizia la terapia ormonale con un supporto psicologico, mentre frequenta le scuole superiori. Alla maggiore età, i genitori si trasferiscono in Italia confidando nell’aiuto familiare. Gabriella rinasce a vent’anni con l’operazione, a Trieste, e cambia genere sui documenti. I parenti le voltano le spalle. Con i genitori apre un salone di bellezza nel paese in cui si è trasferita, in Abruzzo, luogo d’origine del padre. L’ostilità di questo nuovo ambiente rende la sua giovinezza molto inquieta. È una bellissima ragazza bionda: attira l’interesse degli uomini del paese che si avvicinano a lei solo per il sesso. Per tutta risposta, Gabriella si isola dalle persone. Si appassiona invece alla magia facendosi passare come strana, la diversa del paese. La vedono nottetempo intorno al cimitero, dicono che compia riti satanici. Un giorno, in preda alla disperazione, Gabriella si lancia giù dalla finestra più alta del palazzo in cui abita. Si salva ma impiegherà anni per riprendersi. E le peripezie non sono ancora finite. Il salone cambia sede. Il nuovo locale che i genitori aprono per lei si allaga dopo pochi mesi. La responsabilità del costruttore dell’edificio viene insabbiata dal Comune, costringendo i genitori di Gabriella a pagare ingiustamente le spese del negozio distrutto. Gabriella ora vive ai margini con i suoi genitori, ha pochi amici, ma vuole rinascere un’altra volta. Fra poco cambierà nome. Ha scelto di chiamarsi Regina. Inizia la giornata con lunghe passeggiate su una strada trafficata in scarpe da ginnastica e un abito in latex che esalta le sue forme abbondanti attirando gli sguardi incuriositi degli automobilisti. Gabriella vuole un seno ancora più grande di quello che ha. Sogna la sua iperfemminilità. È facile immaginare la simpatia immediata di questa donna così forte e particolare per Piero Pompili. Gabriella è davvero la “Figlia di Iorio” dei nostri giorni. Le immagini conservano qualche ricordo dagli studi di Francesco Paolo Michetti, ma si avvicinano più al sentimento tragico di Gabriele D’Annunzio, riletto in una chiave personale. Pompili si è concentrato sugli aspetti atavici della tragedia umana, rivissuti in luoghi non distanti da quelli della fabula dannunziana. Durante la preparazione del lavoro ho cercato di coinvolgere un antropologo con il quale dar vita ad alcuni tableaux vivants, per accompagnare questo “sogno della Figlia di Iorio”: foto da realizzare abbigliando i personaggi del dramma con costumi d’epoca, nel paesaggio che Michetti scelse per il suo quadro manifesto (la visione della Majella sulla strada che conduce da Guardiagrele a Orsogna). Purtroppo, la collaborazione è incorsa in problemi di vario genere, anche uno scontro con Gabriella – che l’antropologo voleva vestire con una parrucca scura, a suo dire filologicamente più corretta – idea da lei rifiutata per non cambiare identità. Non ultima, la diffidenza del professore verso l’intero ciclo di opere. Perché sono immagini forti. Sconvolgono per la cruda bellezza che non indulge al glamour, sterile ricerca di effetti estetici.
Andrea Iezzi
Al bambino che mi porto dentro”
Mio malgrado mi ritrovo scaraventato in un sepolcro. Mi ritrovo, perché così è stato, nell’oscurità di un sottosuolo ostile e a dir poco claustrofobico; con il trascorrere dei giorni la mia mente è ottenebrata, prendendo sempre di più le sembianze di un forzato in attesa di giudizio. Alzo gli occhi e dall’incavo di una feritoia simile ad una finestra vedo le sbarre; sto cercando di capire il perché mi ritrovi sepolto vivo qui, privo di luce solare e privo del cielo che comunemente si intravede dalle tende. Neanche i topi riuscirebbero a sopravvivere in questo non luogo. Nella mia scatola cranica si susseguono ricordi, percorsi: ora vedo come pale d’altare le mie opere fotografiche, i miei frammenti di vita; vedo il Cristo morto del Mantegna, la Madonna del parto di Piero della Francesca, vedo il Mosè di Michelangelo, vedo il Discobolo di Mirone, ma vedo anche il riposo di Atlante scolpito da una luce romana. Vedo le forme voluttuose di una donna in stato di gravidanza, vedo la carne che si fa marmo di Leda e il cigno, vedo i miei fratelli, non biologici ma di strada, con i quali ho condiviso il fumo, il sudore, le lacrime e a volte anche la morte. Li vedo tutti da me ritratti nella loro sacrale nudità, nell’oscurità delle palestre scolpiti dalla magia della luce, li intravedo attraverso le sbarre ferrose di un bagno, ma poi li rivedo reclusi nel carcere michelangiolesco di Civitavecchia. Ma si, ora vedo, attraverso le ferite inflitte sul corpo di mia madre stesa sul letto, la sfera magica di Gabriella. I garretti di mia madre pastorella che hanno percorso chilometri e chilometri su per i Monti Prenestini che, come giganti, si stringono intorno al corpo di Roma. Elide mia madre, l’Elide come la regione dell’antica Grecia stesa sulle pendici del Peloponneso. Vedo la maga, la mia adorabile musa, la figlia di Iorio, Gabriella, nelle sue profonde Metamorfosi che sicuramente non sarebbe passata inosservata ad Ovidio, sommo poeta di Sulmona; intravedo nella sfera che sorregge sul palmo delle sue lunghe mani rapaci la luce farsi acciaio convergere nelle sue pupille cosmiche. Sento il freddo della grotta impossessarsi delle sue carni, vedo le sue labbra che vibrano profetiche parole nell’Abruzzo preistorico di D’Annunzio che tanto hanno ispirato il suo dramma pastorale; la vedo inseguita dai mietitori ebbri e madidi di sudore su di un campo di grano, e mi accorgo con stupore di aver colto le stesse vibrazioni dell’omonima tragedia di Gabriele. Ripercorro luoghi, corpi in carne e ossa ma anche lamiere contorte da un dolore che si fa umano, vedo la Rosa Bianca che si innalza al cielo come un’Atena nell’Olimpo ellenico. Ed io come un visitatore smarrito guardo, tocco e immagazzino tutto nella mia camera cranica. Le mie pupille si riempiono di corpi, di anime, le mie lacerazioni si dilatano come ombre nell’oscurità della tenera notte.
Piero Pompili
Antonio Calbi
Guardando i corpi ritratti da Piero Pompili viene da interrogarsi su cosa sia in definitiva un corpo e cosa sia diventato oggi, nella nostra epoca segnata dalla comunicazione social, pervasa sia di immagini di noi stessi sia di parole scritte, epoca di iper-comunicazione ma in definita segnata dalla solitudine, dall’assenza di relazioni in presenza, di corpi che si annusano, si stringono, si guardano, si parlano, non soltanto con le parole ma con la comunicazione non verbale, con il linguaggio del corpo, per dirla con Alexander Lowen. Tanto che il corpo pare essersi perduto, intendo il corpo in carne e ossa, quello vero e non virtuale, sostituito dai suoi simulacri digitali, immagini ad alta definizione, certo, ma nei fatti senz’anima e respiro, e dunque impalpabili. Così tanto molteplici da risultare “invisibili”, puri fantasmi. Guardando i corpi di Pompili, definiti da una vibrante tavolozza di toni d’argento e di ghiaccio, ciò che si impone in primis è la loro perentorietà di corpi-anime: sono corpi cartesiani, concreti, materici, seppure nella bidimensionale del supporto cartaceo o digitale, ma con la loro aurea di vita, di anima. “Penso, dunque sono”, ha sentenziato Cartesio. “Ecco il mio corpo, dunque esisto”, paiono affermare nelle loro pose i corpi fotografati da Pompili. È così in particolare per i ritratti che guardano dentro l’obiettivo, con i loro sguardi vitrei e i volti che sanno di terra, di vita vissuta. Quegli sguardi penetrano in chi sta davanti e accendono un dialogo muto con chi li osserva, penetrano nei nostri corpi, ci identifichiamo con loro, ci riconosciamo simili nella diversità, ne sentiamo i respiri, le palpitazioni, gli odori. Sono corpi che appartengono ai nostri paesaggi interiori, sono corpi che richiamano dalla memoria le costellazioni dei corpi di cui abbiamo avuto esperienza, che abbiamo conosciuto, che abbiamo abbracciato. Sono corpi che paiono arrivare da lontano, eppure sono corpi di oggi. Ecco perché quando ho scoperto i corpi di Pompili, quelli dei suoi pugilatori moderni e quelli dell’umanità dei Quartieri Spagnoli di Napoli ho subito pensato a Pasolini, ai corpi dei personaggi dei suoi film, corpi di una umanità vera, pura, sincera, senza alterazioni dettate dalle regole e dai conformismi sociali, corpi in transito dalla storia, che li avrebbe trasformati di lì a poco e a volte cancellati per sempre. Come i corpi dei contadini del sud della mia infanzia lucana, quei corpi ritratti dall’occhio di Henri Cartier-Bresson nei suoi viaggi in Basilicata, e più tardi colti con più empatia e amore da Mario Cresci e Domenico Notarangelo. Una civiltà di corpi è stata cancellata, quella dei nostri nonni nati nel primo decennio del secolo scorso. Eppure, l’occhio fotografico in bianco e nero di Piero Pompili riesce a far riaffiorare quelle radici antiche, radici antropologiche, anche dai corpi ritratti in questi tre decenni di ricerca sull’uomo di oggi. In questa operazione di riscoperta, o se vogliamo di svelamento – che a tratti diventa rivelazione, corpo-santo, corpo-puttana -, Pompili è supportato dal bianco e nero delle sue fotografie stampate ai sali d’argento e dalla nudità dei suoi modelli. Una nudità da Paradiso terreste, verrebbe da dire, primordiali, archetipici, quando ancora il peccato originale non li ha ancora segnati nella conoscenza, corpi avvicinabili a Dio che li creò a sua immagine, e dove l’orgasmo del piacere – simbolizzato dalla mela offerta da Adamo ad Eva resta sospeso fra sublime del divino e piccola dose del trapasso mortale. Prendiamo per esempio i suoi pugili: ci appaiono allo stesso tempo eroi e santi, guerrieri e uomini fragili. Negli attimi fuggenti colti dal suo obiettivo la brutalità e l’arroganza della forza sono superati dallo struggimento e a tratti dalla dolcezza. C’è del sentimento in questi visi, in questi corpi, colti nella loro nudità, oltremodo naturale, senza alcun cenno di compiacimento o narcisismo. C’è la bellezza semplice e pura, in questi maschi coi guanti, colti a riposo o in doccia, alla fine degli incontri. C’è anche sensualità – quale corpo nudo non lo è –, ma anch’essa resa nella sua dimensione più diretta, con la stessa verità cristallina che c’è nelle sculture antiche, che paiono non conoscere nessun tipo di pruderie o pudore. Una nudità che ha del sacro, come appunto nelle nudità di certi film di Pasolini. Nelle sue conturbanti, essenziali deposizioni vi possiamo vedere la lezione di Mantegna, del suo Cristo morto alla Pinacoteca di Brera, ripreso da Pasolini in Mamma Roma; di Pontormo e Rosso Fiorentino, c’è il chiaroscuro di Caravaggio e la plasticità di Michelangelo, c’è prima di tutti Policleto e gli altri scultori greci. Solo un figlio di braccianti e carpentieri poteva maturare le sensibilità necessarie a cogliere la fatica, la spossatezza, gli umori, e dunque la fascinazione di questi corpi colti quasi sempre dopo gli incontri. E si badi bene, è la stessa sensibilità di lirica terrosità che lo porta a ritrarre tutti gli altri corpi dei suoi portfoli. In fondo lo sguardo di Pompili è quello di chi si sente parte di questa umanità nuda, c’è la naturalezza di San Francesco e dell’uomo vitruviano di Leonardo, uomo come centro dell’universo, e le palestre sono ambienti di un Purgatorio di oggi. I pugili di Pompili esprimono forza fisica e interiore, fragilità e ferocia, sono nostri fratelli e figli, sono anima e corpo sovrapposti, sono scatti che sanno di epifanie immortali. La sensualità e l’erotismo sono indagati nei corpi di una coppia uomo donna, novelli Bacco e Arianna, di cui non vediamo il viso, eretti uno a fianco dell’altra. Oppure il triangolo pastorale ispirato alla Figlia di Iorio di D’Annunzio, figura reietta di una società senza tempo, ancestrale, mitologica, che qui è un transessuale nato in America e tornato nella terra d’origine dei suoi genitori, l’Abruzzo, dalla chioma platino, seni generosi, occhi di vetro, unghie da strega. I peni, anche laddove appaiono di misure generose, sono colti in modo naturale, come parte ordinaria dei nostri corpi, insieme a vene e arterie di braccia, mani, gambe, senza alcun pudore, come novelli Atlanti, in Castore e Polluce, nel novello Torso del Belvedere, nelle grazie maschili di Tre fratelli, nel Discobolo in carne e ossa. E c’è financo una Resurrezione, con un maschio nudo fotografato su una scala di ferro fra le lapidi di una cappella di cimitero. Seppure privilegiando il nudo maschile, anche i corpi femminili sono soggetti di ricerca per Pompili, donne di bellezza greca o etrusca, donne incinte o con pargoli in braccio come Madonne rinascimentali. Nella sua ricerca sul nudo Pompili incontra e omaggia i corpi dei bagnanti dipinti in abbondanza da Fausto Pirandello. Infine, i volti ritratti con la stessa poetica e la stessa cifra estetica: visi sinceri, autentici, vissuti, materici, ricchi di sfumature e portatori di anima e sentimenti, che guardano il fotografo e dunque noi, oppure di profilo o di tre quarti. Persone qualunque o più conosciute, Enzo Siciliano, Roberto Saviano, Antonio Franchini, Enrico Lucherini, Ferdinando Codognotto, Carlo Montalbetti, Antonietta Orsatti. Tutti visi su cui il tempo è passato e ha lasciato tracce di densità esistenziale, che non vuol dire soltanto rughe e solchi, ma sentimenti accumulati, emozioni vissute. Dopo aver osservato queste opere – perché di opere d’arte si tratta – viene voglia di portarsi nei propri teatrini domestici queste impronte di varia umanità. Ma ancora più impellente è il desiderio di farsi ritrarre da Piero Pompili, offrendosi al suo occhio rapinatore, per fissarne lo sguardo, ma anche nudi così come siam fatti, il più del tempo occultati dai costumi quotidiani sul palcoscenico della vita. Insomma, si viene mossi dallo stesso impulso che portava i committenti dei secoli d’oro della pittura italiana a recarsi negli atelier dei più raffinati e originali artisti per farsi da loro ritrarre eternando per i posteri non solo le proprie effigi, ma attraverso di esse provare a tramandare un carattere, una psicologia, un profilo interiore. Sfida delle sfide per i pittori sublimi dell’arte di allora, sfida oggi di Piero Pompili e del suo magnifico, estetico e conturbante occhio fotografico.
Antonio Calbi
Il corpo secondo Pompili
Nell’epoca in cui i corpi tendono a perdere le loro identità tradizionali mutando, trasformandosi, rendendosi simulacri, ologrammi, immagini instagrammabili, esagerate, ritoccate, falsificate dalle esigenze social e dalle pose del narcisismo di massa, l’obiettivo di Piero Pompili sembra arretrare nel tempo alla riscoperta del corpo antico, quello plasmato, al massimo, da sport come il pugilato e la lotta o dai mestieri del braccio come quello del manovale, del carpentiere, del meccanico… Figlio della borgata, ma legato alla visione classica pasoliniana, erede cioè di quel mondo subalterno che aspira a farsi borghese, Pompili non racconta la contemporaneità nella quale sono questi ultimi, i borghesi o ciò che di loro resta, ad acquisire una mentalità borgatara secondo il rovesciamento dell’ottica raccontato da Walter Siti ne “Il contagio”, ma resta fedele ai valori di un’arte, prima di tutto formalmente rigorosissima, e poi a suo modo impegnata, comunicativa, ricca di riferimenti letterari oltre che figurativi. Si tratta di un’arte intrisa di ossessioni, di simbolismo, di maledettismo, e però maturata alla scuola di Enzo Siciliano e di “Nuovi Argomenti”, dove Pompili cresce assieme a una generazione di scrittori che, gravitando soprattutto attorno a Roma e a partire dagli anni Novanta, diventa protagonista della scena letteraria nazionale.La mostra s’intitola “Uomini e no” perché qui i soggetti classici di Pompili, i temi ricorrenti della sua ricerca ormai trentennale, i corpi dei pugili, corpi di maschi nel pieno del vigore, ma anche segnati dalla maturità e della vecchiaia o addirittura colti nello sboccio di perturbate adolescenze, si aprono al racconto del femminile e si allargano all’universo delle cose, ma non c’è dubbio che al centro della poetica di Pompili ci sia, ancora una volta e per sempre, la carne. Si guardi, a questo proposito, la potente “Resurrezione” in cui un corpo maschile, in tutta la sua frontale nudità, emerge inerpicandosi tra i loculi di un cimitero come a sbandierare il più amato e lampante dei dogmi cristiani: la resurrezione della carne. Anche le auto, impilate e sfasciate in un trionfo di lamiere, sembrano essere di carne e quel che resta di motori, pistoni e batterie pare assumere l’aspetto d’interiora, di organi defunti. Il corpo che Pompili rappresenta, inquadra, definisce con il suo obiettivo, benché sia perlopiù atletico, anzi, caratterizzato soprattutto dalla muscolatura, dai tendini e dalle vene, non è quasi mai in movimento, ma bloccato nella fissità del ritratto e dal rigore di una posa pensata e fortemente cercata, voluta dall’artista. Il corpo ritratto da Pompili è scolpito tanto dalla luce quanto da una progettualità che lo spinge ad assumere le posture più canoniche dell’arte classica e rinascimentale e manierista. Pompili è un artista colto e selvaggio, tiene i suoi demoni a freno, li costringe a ruggire dentro a una forma implacabile.I suoi corpi aspirano alla nudità come dei prigioni smaniosi, ma conservano la loro energia anche quando sono ricoperti, come nei piedi calzati nelle pantofole tradizionali e nel lembo della veste contadina che emerge dall’inquadratura della madre intenta nella raccolta delle olive, un dettaglio che conserva intatta tutta l’energia primigenia che ribolle anche nel ventre nudo della donna gravida di “Cerere” o nel membro nodoso di “Atlante a riposo”. A tal punto è forte la smania interpretativa di Pompili, la sua voglia di orientare la realtà e la storia da raggiungere addirittura esiti di veggenza, come nell’ormai celebre “Memorie da dietro le sbarre” in cui, dei pugili collocati, per improvvisa ispirazione, dietro un’inferriata, almeno uno finirà, anni dopo, effettivamente in carcere, o come “L’ultimo apostolo” in cui un giovanissimo Roberto Saviano, all’epoca “giornalista felice e sconosciuto, viene ritratto da Pompili tra le immagini sacre di un Cristo crocifisso e di una Madonna addolorata come un santo del barocco spagnolo votato al martirio.In un mondo in cui ciò che non è umano sembra avere, sempre e comunque, la prevalenza, Pompili all’umano è ancorato, sempre, e dall’umano, per sua e per nostra fortuna, non si separerà mai.
Antonio Franchini
Foto Vernissage